Biennale Disegno Rimini
MADMEG "i Patriarca"
a cura di Rodolfo Gasparelli
Museo della Città, Rimini
28 aprile - 15 luglio 2018
28 aprile - 15 luglio 2018
Che scrittura e disegno abbiano tanti aspetti in comune è cosa risaputa. In primis, forse, il fatto di tratteggiare una possibilità rappresentativa del mondo nella quale l’oggetto
si costituisce come immediatamente simultaneo all’esecuzione,
effettuandosi nel suo corso. Se guardiamo all’opera di Mad Meg, ciò
risulta ancor più palese: nelle sue carte, contrassegnate da
un’iperbolica precisione del tratto, l’immagine è la risultante di una
graduale chiarificazione dell’oggetto, di un processo discorsivo in cui
scrittura e disegno tendono a compenetrarsi, con frasi e periodi
impiegati come linee grafiche, sintagmi convertiti in simboli, quasi a
voler suggerire una direzione ideogrammatica dell’insieme. La scrittura
diviene in questa sede una modalità del disegno – spogliata da qualsiasi
residuo contenutistico, essa si traduce in un codice visivo del tutto
funzionale all’emersione dell’immagine.
C’è da aggiungere che la stessa clarté
cartesiana del tracciato è direttamente proporzionale alle condizioni
della sua illeggibilità: distinto da ciò che nel regime verbale potrebbe
significare, il testo tende a incedere con la stessa, sillabica,
fluidità di un algoritmo, alla stregua di una pura e semplice
combinazione segnica, e ciò nonostante continua a imporsi,
nell’immaginario dello spettatore, come modello di riferimento. Si
tratta di un effetto che si verifica per mezzo di un preciso stratagemma
stilistico, del quale tra l’altro l’artista riesce ad esplorare tutte
le virtualità, anche le più periferiche. Se da una parte è lei stessa a
dirci di non essere interessata al contenuto dello scritto di cui si
serve per computare l’immagine, tuttavia l’atto stesso del trascriverlo
finisce per riattivarne l’eco. Copiando riscrive, e riscrivendo
commenta. La tecnica della citazione, da lei applicata con una
metodicità che ricorda molto da vicino il fare dell’amanuense, giunge,
in queste tavole, al suo apice espressivo. E d’altronde questo paragone
con il medievale compilatore di manoscritti non è poi così peregrino:
vuoi per la vocazione certosina della stesura, che porta agli estremi
l’unità di parola e segno orientandola verso una scrittura completamente
iconica; vuoi per la fedeltà anastatica del suo esercizio, che non cela
le fonti da cui attinge, anzi. Siano esse tavole geografiche,
artistiche, fotografiche o entomologiche ne esalta il prestito,
dichiarandolo in modo esplicito.
Nel suo caso l’intertestualità offerta
dalla citazione si esprime insomma alla sua ennesima potenza,
soprattutto in vista della felice congiunzione di canone (la forma di
partenza, già codificata) e invenzione – quel détournement
determinato dal prelievo di tale forma dal quadro storico, sociale e
culturale di riferimento. Per una strana alchimia, la forma divelta dal
suo contesto perde di colpo il suo carattere di testimonianza per essere
investita di un potenziale di estraneazione che si traduce in forza
aggressiva. L’esito sono opere di una sorprendente vis satirica,
ottenuta proprio mediante la compressione di una lunga catena di giudizi
entro la trama rapida dei segni. Anche a dimostrazione di come,
diversamente dalla tecnica gemella del montaggio, che oscura l’origine
dei frammenti di cui fa uso simulando una casualità del loro
accostamento e quindi depotenziandone l’impatto, la citazione permetta
una relazione sincronica di tutti i piani – linguistico, culturale,
visivo – diretta a innescare la loro latente virulenza.
Nella serie de I Patriarchi, così
come in altri lavori che prendono le mosse dal repertorio dei dipinti
classici, Mad Meg riesce concretamente ad applicare il dispositivo della
citazione nella sua duplice terminologia: da una parte quella canonica,
in qualità di richiamo a un precedente pittorico o semantico,
dall’altra quella giuridica, nel senso di “chiamata a giudizio”, di
denuncia. L’indice sarà spesso puntato contro il buon senso comune o le
spavalde personificazioni di un sistema di potere (l’imperialista, il
conservatore, il cardinale, solo per citarne alcune) che incarnano il
grado zero dell’umano, la sua inettitudine. Quando, per uno strano gioco
di parole, forse possibile solo nella nostra lingua, essa si fa
compiuta insettitudine – Kafka docet.
testo di Roberta Bertozzi
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